Appunti per un intervento pubblico scritti in privato.
La vita ti regala anche delle cose buffe. Tipo essere invitato da una persona che non vedevi da 17 anni come relatore, in qualità di regista, sul tema “Arte: malattia o cura?”.
Ora dato che purtroppo non potrò essere presente in formato 3D, trasmetto questi appunti in 2D a chi abbia la pazienza di leggerli.
Ringrazio quindi Fabrizio Gilardi per aver pensato a me e per avermi definito un regista anche se mi riconosco più nella definizione anglosassone di “filmmaker”. E’ un termine che abbraccia più ruoli e quindi rappresenta meglio il mio modo di lavorare che mi vede spesso sia sceneggiatore, operatore e montatore dei miei film. Regista secondo me è più specifico e riguarda solo un momento, forse il più importante, della produzione.
Bisognerebbe poi capire se ciò che faccio possa essere accostato all’arte. Farò finta che lo sia lasciando la soluzione del quesito amletico al pubblico che avrà la pazienza di vedere qualcosa di quello che ho realizzato (www.fairy-tails.org o http://www.alextheca.it ).
Per tornare al tema se l’arte sia cura o malattia vorrei azzardare subito la mia risposta dicendo, salomonicamente, che può essere entrambe le cose. Provo a dimostrare.
Parto dall’idea che l’arte sia una rielaborazione della realtà, una trasformazione artificiale della materia che ci circonda. Dal mio punto di vista questa rielaborazione ha uno scopo di ricerca, esplorazione e intrattenimento. Ma anche quando sono spettatore mi muovono le stesse esigenze, gli stessi bisogni. Quando questi bisogni vengono soddisfatti è normale sentirsi “curati”, appagati, e visto che siamo nell’anno dell’alimentazione, sazi.
Mi pare fosse Woody Allen che in un suo film paragonava Dostoevskij a un pasto completo. Ecco forse bisognerebbe valutare un’opera dal grado di appetito che ti toglie.
Sempre a proposito di arte Allen sostiene che l’arte è uno dei pochi eventi della vita su cui si ha un certo grado di libero arbitrio. Dice: “solo l’arte puoi controllare, l’arte e la masturbazione”. Se non è una cura questa…
Sarebbe poi da capire per quali malattie l’arte possa essere una cura. Ognuno ha le sue idiosincrasie e si sceglie la cura più adatta. Io direi che è più adatta a curare le malattie dell’anima. Vedo difficile guarire dall’influenza con alte dosi di impressionismo. A meno che l’influenza non dipenda dallo stato d’animo e credo che spesso sia così.
C’è però una malattia che accomuna tutta l’umanità. E’ una malattia la cui prognosi è sempre certa e, fino a prova contraria, irreversibile. E’ una malattia incurabile chiamata vita. Per questa malattia l’arte non è una cura, visto che cura non c’è, ma al più un palliativo, un piacevole oppiaceo.
E veniamo al punto in cui l’arte invece può essere considerata malattia. Anche qui la vedo come una malattia dell’anima. C’è il solito luogo comune secondo cui per essere artisti bisogna essere pazzi, stravaganti o eccedere in qualche vizio. Non so. Io credo di più nel dna, inteso come talento regalato dalla natura, misto a mestiere. Se guardo al campo cinematografico nei registi che ammiro vedo soprattutto talento e tanto esercizio. A volte le due cose, col tempo, vanno in direzioni opposte. Il talento, inteso come le cose che uno ha da dire, tende ad esaurirsi, mentre il mestiere tende ad accrescersi. Così mi capita spesso di vedere in una carriera di un regista un inizio travolgente, ma con poca tecnica e un finale poco entusiasmante, ma con una tecnica sopraffina. E’ un po’ come con i grandi calciatori. Con gli anni perdono di fisicità, ma compensano con l’esperienza. Detto questo un po’ di “malattia” aiuta se per malattia si intende un’inquietudine di fondo, un modo originale e anticonformista di guardare il mondo. La malattia allora è sinonimo di diversità, provocazione, opposizione, invenzione.
C’è infine una condizione, forse accomunabile a una malattia, che a mio parere aiuta a produrre e a usufruire dell’arte. E’ l’ingenuità. Sgombrare il cervello da tutti i nostri pregiudizi, abitudini e costruzioni. Avvicinarsi alle cose come farebbe un bambino di tre anni che esplora il mondo come vivesse in un sottomarino giallo. E’ una malattia da cui, purtroppo, si guarisce troppo in fretta.