L’onnivoro dubbioso. Parte prima.

Dilemma parzialmente e provvisoriamente risolto.

Premessa.
Io amo la carne in quanto cibo. Non lo considero il mio piatto preferito, ma mi piace. A parte le frattaglie, la cervella, il fegato e la lingua, del bovino, del suino e del pollo mi piace tutto. Mi piacciono anche i conigli, i cinghiali, i cervi, il montone, l’agnello e la pecora. Oltre a praticamente tutti i pesci. Della carne mi piace forse anche più del sapore l’aspetto conviviale. Tipo la grigliata di ferragosto, l’asado, la fiorentina, i salumi nei panini al latte delle feste, la salamella bisunta stile festa dell’Unità. La condivisione di questo tipo di cibo sembra quasi un ultimo omaggio all’animale. Una specie di funerale festoso con cui lo si ringrazia per averci fornito i suoi sapori. In una puntata dei Simpsons Homer prendeva in giro sua figlia, di stretta fede vegetariana, cantandogli “niente amici con l’insalata”. Cosa probabilmente più vera negli States visto il loro consumo smodato di carne.
Il fatto è che tutte queste prelibatezze derivino da animali morti e che questi, come già illustrato in un post precedente, siano senzienti mi ha però sempre un po’ turbato.
Ma prima ancora della morte dell’animale il problema è la sua vita. Perché le condizioni in cui teniamo il nostro cibo da vivo è così drammatico che ucciderle mi pare un atto di pietà.
Non mi sento per questo un animalista. Anzi io tendenzialmente gli animalisti non li posso soffrire. Buona parte di loro sono dei protonazisti che dietro l’amore folle per le bestie nascondono una carica d’odio per l’umanità. Tipo quelli che su facebook invocano la pena di morte per chi abbandona i cani. E sono pure favorevole alla sperimentazione animale se serve a salvare degli umani.

Penso solamente che allevare e mangiare animali in questo modo non sia giusto. 
Non la farò lunga perché la letteratura sul tema è ampia e piuttosto cospicua anche la produzione filmica. Oggi ci sono sufficienti fonti documentali facilmente accessibili per convincersi a mangiare meno carne o a non mangiarne affatto. Ma anche senza questo supporto, se ci sto a pensare un attimo, ci sono un migliaio di buone ragioni per smettere di mangiare gli animali e solo una per continuare: mi piace. Fino al 2 agosto scorso quell’unica ragione ha vinto su tutte le altre molto più valide per smettere. Dal 2 agosto scorso ho deciso di provare a diventare un po’ meno onnivoro e di cominciare ad escludere l’acquisto di carni rosse e bianche. Non mi posso definire vegetariano perché non ho escluso il pesce (l’astice però è salvo), ma neanche la carne “occasionale” nel senso che non mi opporrò a cene o inviti a mangiare carne acquistata da altri. Cioè cercherò di evitare, avvertendo quando possibile, ma non farò il talebano in tal senso, anche perché penso che se lo facessi durerei ancora meno in questa scelta di quanto penso di durare. Terrò dei brevi aggiornamenti sul progresso della decisione, ma se fossi un bookmaker non scommetterei su di me. Sento che non durerò molto in questo buon proposito e che il mio karma tornerà ben presto in negativo. L’ho capito quando il giorno dopo la mia decisione ho quasi pianto di fronte al melone privato del prosciutto. Questo quindi sarà probabilmente il diario di un clamoroso insuccesso. Spero solo che la carne sintetica arrivi molto presto. Ho già sentito che è stato provato in Inghilterra un hamburger di carne ricavata da staminali. Ragazzi scienziati so che potete farcela, io sarò il vostro primo acquirente.
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Alle porte di Tannhäuser.

Dilemma irrisolto.

– Che cosa è umano? Che cosa ci rende umani?
– Salcazzo.
– Passiamo oltre. Anzi passiamo prima.

Quando avevo circa 9 anni mi punse vaghezza che ciò che affermavano gli adulti avesse un retrogusto di inganno. Il mondo che mi veniva dipinto mi sembrava spesso di convenienza. Ora che sono adulto so che effettivamente è conveniente rimodellare la realtà a proprio piacimento. Spesso le domande che fanno i bambini sono le stesse su cui i filosofi si arrovellano da millenni senza cavarne un ragno dal buco. E allora, caro bambino impertinente perché dovrei cavarlo io il ragno dal fottuto buco? Che poi magari esce incazzato, mi punge e scopro che sicuramente sono un coglione.

Questo retropensiero deve aver giustificato, ad esempio, l’affermazione di mia zia di fronte alla dichiarazione che non sarei più andato a pescare con lo zio quando avevo circa 9 anni. Devo dire che pescare con lo zio sul suo gommone al calar del sole dopo un giorno di mare era molto bello di per sé e aveva il vantaggio, nei giorni fortunati, di conferire un apporto proteico a costo quasi zero.
Ricordo anche che c’era una certa eccitazione nella caccia (che poi la pesca è anch’essa una caccia, ma chiamarla pesca sembra più buona che la caccia), nel cercare di beccare un piccolo pesce in un grande mare. Dimostrare la nostra superiorità attraverso il fatale inganno dell’esca, cosa che ci ha portato nei millenni al vertice della catena alimentare. Tra gli stronzi siamo i più astuti. Fortunatamente, aggiungo.
Tutto ciò però perdeva progressivamente fascino nel momento di tirare il pesce in barca. 
Ciò che in pratica sostengo su questo blog e che alla fine potrebbe essere l’unico pensiero alla base di tutte queste lettere è che la vista è il nostro diletto e cruccio, il senso che tra tutti è il più adorabile e traditore.
Osservavo questi pesci che si dibattevano fino al soffocamento con crescente fastidio. 
Se fossero schiattati con un grande sorriso stampato ora starei a scrivere di figa o alla figa. Invece. Questi stupidi pesci boccheggiavano in modo fastidioso.
Non sarà mica che soffrono?
E pronta arriva l’affermazione della sorella di mia madre.
Mavalà. I pesci non soffrono perché non hanno terminazioni nervose.
Al momento probabilmente me la devo essere anche bevuta.
Ma per poco evidentemente. Mentre il pesce agonizzava in cielo si stagliava un cartello: stronzata, grandissima stronzata.

Per chi incontri nella sua vita anche solo una formica potrà verificare che anche gli insetti non amano finire nel fuoco, essere cosparsi di insetticida o essere mutilati. E’ una cosa che semplicemente non gli va giù. Non apprezzano diciamo. E questo perché banalmente metterebbe a repentaglio la loro sopravvivenza sul pianeta. Con quei loro quattro neuroni riescono a distinguere tra l’esistere e il non esistere molto più lucidamente di me spalmato sul divano davanti alla tivvù in una serata media. Visto che Darwin ci ha spiegato che più o meno siamo tutti parenti è evidente che abbiamo sviluppato una serie di sistemi in comune per sopravvivere. Uno di questi è la percezione del dolore. Grande soluzione per evitare di mangiarsi la propria mano dopo averla lasciata rosolare sul barbecue. Direi elemento base per evitare l’estinzione.
Sgombrato il campo da questa bazza del “non soffrono” ora abbiamo un problema.
Cioè a voler ben vedere il problema l’avremmo avuto anche prima. Se anche avesse avuto ragione mia zia chi ci autorizza a uccidere un altro essere vivente?
Qui la risolvo con lo specismo. Anche se parlare di specismo non è tanto bello. Diciamo allora che qui vige una solidarietà di squadra che mi fa preferire sempre gli umani agli animali. Tra noi e loro sempre noi. Ovviamente, purché si tratti di sopravvivenza non di usare un gatto per giocare a calcio. In questo senso, sarebbe più sensata la sperimentazione animale volta a salvare vite umane che non l’alimentazione, almeno nei paesi in cui ci si può rifornire di proteine senza utilizzare gli animali.
Quindi il problema lo fisserei sul dolore e sul fatto che sono, senza dubbio, esseri senzienti.
Ecco uno di quei ragni nel famoso buco. Perché se soffrono (anche diversamente da come soffriamo noi) abbiamo un problema morale.

Per fortuna gli addetti al marketing hanno capito che la vista gioca un fattore spropositato nell’affrontare i problemi morali. Così all’Esselunga (ma anche al Pam) non si sognano nemmeno di mettere un bovino vivo dietro il bancone della carne e di lasciare al cliente l’incombenza di ucciderlo con una pistolettata in fronte.
Guardi questo vitello come sgambetta. Non è forse freschezza questa? Gli spari qui in mezzo agli occhi. E’ un attimo. Poi si affetti la parte che preferisce la metta sulla bilancia e schiacci il tastino corrispondente per avere l’etichetta col prezzo.
No della freschezza importa poco. L’importante è che la carne non ricordi per nulla l’originario proprietario. Dei bei tocchetti rossi impacchettati in lucidi polistiroli bianchi. Potrebbe essere pongo, das, gomma, mattoni. Da quando i mattoni hanno un’anima?
Se si restituisse un po’ di sana sincerità alla macellazione e al “cliente finale” che ha deciso la sorte del suino senza sporcarsi le mani? Se gli si lasciasse l’incombenza dell’uccisione il prezzo della verza schizzerebbe alle stelle. Oppure i supermarket si riempirebbe di sadici Lecter. Chi lo sa? Forse tutte e due. Eppure un pensiero di riconoscenza dovrebbe essere rivolto a tutti quei boia che uccidono per noi pavidi carnivori smidollati e ipocriti centinaia, migliaia di bovini e polli che poi noi senza problemi ci pappiamo.
Magari sono pure vegetariani, ma bisogna pur campare no?
E molta stima a quei contadini che si allevano i maiali e i polli e poi quando sono pasciuti se li ammazzano, gli tirano il collo, li sventrano, li spellano, li spiumano e forse se li magnano.
Il nostro delicato occhio non può più reggere queste visioni. Per questo al market sotto casa non vi mettono bovini, maiali, polli vivi.

C’è un’eccezione però.
Con i pesci, e si torna all’inizio del discorso, invece si può. Forse perché come diceva mia zia “non soffrono”, forse perché c’è un odio atavico per un antenato troppo lontano, forse perché non parlano, non urlano, ma per i pesci anche al supermaket è concesso assomigliare all’originale. E per alcuni la freschezza è garantita. Come si dimostra qui di seguito.
Visto che l’arte si apprezza con la vista, apprezzatene la sincerità e poi potrete decidere se smettere di mangiare astici per sempre.