Finire è un po’ poetare. O viceversa.

Prologo.
Stamattina ho insultato il mio gatto. Mentre gettavo nell’umido gli abbondanti resti del suo cibo maleodorante snobbato per due giorni, gli ho fatto notare quanto fosse il simbolo di un occidente in decadenza, grasso, pingue, vecchio perché longevo. A ramanzina fatta, gli ho dato dell’altro cibo nuovo perché lo possa snobbare per altri 2 giorni.
E’ il bello dell’occidente decadente di cui faccio parte in modo totalmente integrato.

Guardando nello specchio retrovisore della mia vita posso affermare con una certa dose di verità di non essere uno con uno spiccato senso del dovere. Un po’ dovrei rammaricarmene. Forse con una dose maggiore di questo senso (il sesto, il settimo?) avrei fatto più cose nella vita. O almeno più velocemente.
Non sono sicuro che ne avrei fatte di più belle. Il senso del dovere è anche un ottimo modo per non godersela. Qualcuno potrebbe obiettare che invece serve a godersela di più, ma dato che il goduriometro è soggettivo non sapremo mai la verità, fosse anche la terzultima delle verità.

Tuttavia, qualcosa ho imparato in questi 40 e cocci anni di permanenza terrestre. Tra le cose più significative ci metto:

aprire il cartone del latte praticando un piccolo foro per farlo durare di più;
non comprare la prima versione di qualunque oggetto tecnologico;
aggiustare la scatola del water specie se questa si rompe di Domenica e chiamare l’idraulico ti costa più di un viaggio oltre la troposfera;
fare allacciare le cinture ai passeggeri dietro (tipicamente bersaniano);
finire le cose che si sono iniziate.

Quest’ultima cosa, il finire le cose iniziate è un po’ una new entry. Ci avrà più o meno una dozzina di anni e non so bene quando mi sia scattata. Cioè non so il giorno in cui ho detto “da oggi finisci tutto ciò che hai iniziato”. Che detta così sembra una talebanata, ma è la migliore talebanata che mi sia venuta. Doveva essere un giorno dei tanti che stavo passando da studente universitario fuoricorso. Di giurisprudenza per di più che è quasi un modo di dire. Ah sei di giurisprudenza? Fuoricorso ovviamente? Ovviamente.
Già mi vedevo scivolare verso il topos successivo: quello di chi ha fatto giurisprudenza senza mai finirla. Magari a due esami dalla laurea. E’ pieno di celebrità nel settore e forse non finirla mi avrebbe reso più ricco e famoso. Io invece quel famoso giorno sconosciuto ho deciso di finirla, quella futile esperienza formativa. E non perché mi immaginassi di fare chissà che cosa con il famoso pezzo di carta. Che tra l’altro è ancora in un tubo azzurro arrotolato con la sua bella plastichina protettiva (più bersaniano di così si muore). Era il gusto di finirla per dire: ecco l’ho finita. La soddisfazione che dura giusto un nanosecondo e poi muore di aver fatto fino in fondo una cosa. Non è il fine che interessa è la capacità di finire il fine stesso. Così è accaduto che quando avevo già capito che mai avrei fatto l’avvocato ho deciso di fare lo stesso l’esamone di abilitazione. Con l’interesse pari a zero per il dopo sono pure passato al primo colpo sul campo molto ostico di Milano. Forse perché si vedeva che non me ne importava una cicca e non avrei portato squilibrio nella Forza. In ogni caso ero, diciamolo, piuttosto fiero di me. E questa idea che potevo finire le cose e non lasciarle nell’eterno limbo mi ha dato una certa sicurezza del fatto che molte altre cose si sarebbero potute iniziare e finire. Nel campo che coltivo da qualche anno, cioè il filmmaker (che suona meno pretenzioso di regista), l’iniziare e finire le cose è l’essenza stessa della professione e distingue in maniera netta chi solo dice da chi anche fa. E di persone che solo dicono ce n’è a iosa e fanno parte degli ostacoli che si pongono di fronte al terminare le cose. Per questo sono sempre molto rispettoso di chi invece riesce a portare a termine un film. Fosse anche una vaccata spaziale, gli va riconosciuto lo sforzo, notevole, di essere arrivato ai titoli di coda.

Questa talebanata di finire le cose può portarti anche all’esasperazione. Perché spesso gli astri remano contro. Spesso le energie non bastano. E ancora più spesso i calcoli sono semplicemente sbagliati. Le cose filmiche hanno la tendenza a incasinarsi, a procrastinarsi, a prendere i binari più morti del reame. C’è poi anche un’altro aspetto che forse ha contribuito a farmi piacere questa idea del finire e ha a che fare con il tema a me caro della Fine. Le opere dell’ingegno condividono in qualche modo con gli essere viventi il fatto che solo quando sono compiute possono dare spazio ad altro. A nuove opere voglio dire. Finché non è compiuta rimane ad occupare lo spazio mentale, la scrivania, il tempo. Ma quando è finita è presente e morta allo stesso tempo, lasciando spazio per nuove direzioni, nuove opere. Quando finisce qualcosa ne può finalmente iniziare un’altra perché per il creatore il passato non conta. L’essenza del poeta, ossia di chi fa, potrebbe essere: il futuro passa dalla fine.

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