Se volessimo tentare di dare un senso storico-politico a ciò che passa il convento televisivo nordamericano si potrebbe pensare di trovarsi in una sorta di età ellenistica prodromica della fine dell’impero.
Noi europei assorbiamo ormai al 90% le storie provenienti dall’oltreoceano come se fossero nostre. Anche perché noi, persa ogni velleità egemonica sia politica che culturale, non sembriamo aver molto da dire. Diciamo che preferiamo ascoltare e, semmai, rifletterci sopra.
Nel mentre, gli yankee meditano sulla Fine e sul senso della vita con una consapevolezza “cristallina” che non si era mai vista. E l’impressione è che sotto ci sia la coscienza che il loro ruolo dominante stia per esaurirsi, che il proprio modello non sia il migliore possibile, proprio quando la loro narrazione e la loro lingua diviene la più diffusa nel mondo.
Sono soprattutto le serie televisive a dare il polso di questa illuminata decadenza. Non si celebra più il bianco candido della famiglia americana, quella degli happy days (o quella dei neodominatori alla Dallas), ma si testimonia la poesia della confusione, del grigio e intricato mondo dei sentimenti, dell’incertezza, del divenire e specialmente del finire.
Un bellissimo punto di vista sul nulla.