Il sol dell’avvenire.

Basato su una storia vera.
P.s. Si consiglia di leggere il seguente pezzo con la voce e i modi di Ascanio Celestini. Se avete anche il pizzetto incolto meglio.

Il Mario, la Luisa e il piccolo Paolo. Lui tramviere, lei casalinga, il Paolino che sogna di fare l’astronauta (o il pompiere). Tutti e tre Brambilla, naturalmente.
Da due anni nessuno di loro vedeva la luce del sole. Più o meno due anni prima, infatti, era il 21 dicembre 2012, nel mezzo una visita guidata alle cripte del Duomo di Milano, arrivò, come pronosticato, la Fine del Mondo.
Nel fuggi fuggi generale i Brambilla trovarono un cunicolo che portava sempre più in basso fino a una porticina con uno stemma quasi regale. Diciamo papale. Toccandolo si illuminò e poi si aprì mostrando un piccolo, ma molto ben arredato bunker. C’era un po’ di tutto nell’antro, dal generatore elettrico alla tv. Peccato che nessun canale fosse visibile e i Brambilla non osavano uscire per paura delle radiazioni o dei mostri o degli ufo, insomma per paure varie non meglio identificate.
Quel giorno però, era tipo il 13 marzo 2014 si pose un problema.
La Luisa: ci sono rimaste 3 tazze di riso e una bustina di zafferano.
Il Mario: tutto qui?
La Luisa: e un dado.
Il Mario: sembra un po’ tipo l’ultima cena.
La Luisa: tra l’altro lo zafferano scade domani.
Il Mario: Risotto amaro…
Il Mario aveva quel modo molto milanese di essere spiritoso.
Il Paolino guardava sul tavolo i tre ingredienti rimasti. Afferrò la bustina gialla di zafferano e la strappò in due nello sgomento dei genitori che già si vedevano l’ultimo risotto non più “alla milanese”. Dalla confezione uscirono ben due foglietti: uno con la preziosa spezia e uno bianchiccio quasi trasparente. Mentre la Luisa si gettò sul primo, il Mario prese il secondo e lo dispiegò. In caratteri rossi su fondo bianco un biglietto che sembrava provenire da un’altra epoca e da un altro luogo recitava: “Congratulazioni! Avete vinto un vero pallone da calcio in cuoio”. Seguivano istruzioni per il ritiro in un luogo di Milano non tanto distante dal centro. Il biglietto era firmato dal Sig. Zafferano in persona. Il piccolo Paolo correva per l’antro urlando “Palla! Palla! Pallaaaaa” senza sapere esattamente neanche cosa fosse se non per i racconti del babbo Mario, interista da 10 generazioni.
La Luisa prese il biglietto come un segno divino e senza sapere se fosse giorno o notte, dopo aver terminato l’ultimo risotto con l’ultimo dado e con l’ultima bustina di spezia, i tre uscirono dal bunker facendosi strada tra le macerie dell’ultimo mondo conosciuto (virtuosismo Celestiniano).
Fuori era ancora buio, più o meno poco prima dell’alba. Il Mario ricoperto di polvere si trovò al centro di quella che una volta era la principale piazza della città. Camminando un poco incocciarono, come in un film americano, il simbolo della città che prima del Disastro se ne stava in cima al tempio. Una statua della Madonna tutta dorata, un po’ malconcia, ma ancora riconoscibile.
La Luisa: Mario dove andiamo?
Il Mario: in via Forze Armate 320. Dovrebbe essere più o meno per di là. Andiamo a prenderci quel pallone!
Il trio percorse vari chilometri senza mai incontrare anima viva. Neanche un ratto. Arrivarono infine vicino a un distributore di benzina che già l’alba era spuntata.
Il Mario: dovrebbe essere qui il posto.
Poco dopo dalla polvere che il vento aveva sollevato si stagliò una figura minuta. Un vecchio signore si avvicinò ai tre reduci e senza pronunciare parola allungò una mano.
Il Paolino diede il biglietto bianchiccio al vecchio che lo guardò un attimo e sempre senza dire una parola consegnò un bel pallone giallo canarino al piccolo.
Il Mario mise il pallone a terra e ci mise un dito sopra.
– coraggio. Io te lo tengo fermo. Dagli un bel calcio.
Il Paolino prese una rincorsa di almeno sette metri e corse più forte del vento.
Distese la gamba indietro e caricò il calcio…
La palla gialla andò così in alto che si incastrò nel cielo illuminandolo tutto per altri miliardi di anni.

Fine!

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Un salame e una banana.

Per esempio. La strada in auto tra Milano e Chiavari tra i 7 e credo i 12-13 anni ascoltando dal mangianastri estraibile “Corso Buenos Aires”. Perché allora l’autoradio si doveva estrarre per intero e vedevo mio padre che andava in giro con un borsello con dentro l’autoradio. Poi un giorno si stufò e lasciò l’autoradio “sotto il sedile” sulla strada per Portofino. Risultato: vetro rotto e mangianastri non più “sotto il sedile”. E spesso li mangiava sul serio quei nastri e passavi le ore a districare una matassa informe di spaghetti marroncini. Quello che una volta era il tuo album preferito. Quello con i due pianeta terra uno sopra l’altro e le onde nel mezzo. E alle elementari ascoltare quasi come clandestini i versi “ti hanno visto alzare la sottana la sottana fino al pelo che nero”. E giù risolini dei compagni di classe. E io che non avevo (ancora) capito di che pelo si trattasse coglievo solo la melodia e cantavo le parole come niente fosse. Poi il vinile con lo sfondo bianco e lo zuccotto che chissà dove è finito adesso, il vinile. Tutto un viaggio in macchina lungo la Spagna passato a mimare “Futura”. Per esempio.

Negli ultimi tre giorni ho girato “Le cose che passano”.

Di varie cose tra cui Hugo Cabret.

C’è un antico cinema a Milano, l’Orfeo, che ha mantenuto antichi riti nonostante una recente trasformazione in multisala. La coda alle casse, il posto libero, i film rigorosamente doppiati in italiano, le stesse maschere da 30 anni, il popcorn e l’intervallo. Quest’ultimo avviene di solito senza uno studio preciso del momento. Che ci sia una dichiarazione d’amore o un inseguimento a perdifiato lui arriva e ti strappa dalla sospensione dell’incredulità con la stessa violenza di una bolletta del riscaldamento. Si accendono le luci, sullo schermo appare una locandina fatta da Mio-Cuggino-Che-Da-Grande-Vuole-Fare-ilGrafico e sotto una bella musichetta che non c’entra un cazzo, ma che piace ai giovani. Anche ieri uguale. Nel mezzo dell’ultimo di Scorsese paf la luce. Che però ha avuto un pregio anzi due. Il primo nel ridestarci da un “primo tempo” che sembrava infinito e che mi stava accompagnando verso la sospensione della coscienza. Il secondo pregio è stato apprezzare il pubblico intorno che è un po’ quel plus che nessun blu-ray/mkv/streaming ti può dare e che costituisce ancora uno dei migliori motivi per alzare il culo dal divano. Nella fila davanti alla mia compagnia c’era un’altra compagnia di due generazioni più giovane.
Cinque o sei dodici-tredicenni da film. Tra cui: lo smilzo con i brufoli, il secchione, il bellino e naturalmente il ciccio simpatico. A parte la ragazza e l’asiatico, in pratica i Goonies.
L’epoca Goonies è quel periodo che viene subito dopo il bambino e prima dell’adolescente. Sei già abbastanza consapevole di te stesso, ma non ancora abbastanza per vedere il lato oscuro del mondo. Vivi tutto come un’avventura in salsa di commedia. E ridi per qualsiasi pirlata. Sai cosa sono le bestemmie, ma sono ancora camuffate da “porca madoska” perché grandi motivi di bestemmiare ancora non ne hai.
C’è ancora molta leggerezza prima che la scuola si trasformi in quel tritacarne stile “The Wall” che tende a ricondurre la tua fantasia a salsicce da vendersi al Mercato. Che film i Goonies. Si gustava allora e si gusta ancora con quel mondo segreto agli adulti che dava il senso della clandestinità e dell’avventura. Anche Hugo Cabret vorrebbe rivolgersi in parte allo stesso pubblico, ma i personaggi sono poco leggeri e troppo intellettuali. Un po’ tutta la struttura ricorda un salotto (buono) in stile ottomano e visto che parla di ingranaggi e dell’ingranaggio magico del cinema la battuta facile che viene è che almeno per quello che l’Orfeo chiama primo tempo il film non ingrana.
Poi Martin, che tutti noi amiamo come un padre, si ricorda di riesumare il personaggio principale, ossia il cinema e in particolare le sue leggendarie origini. Il film si trasforma in un bel documentario in forma di fiction. Per chi come me è abbonato ad American Cinematographer e ha letto il bell’articolo sul restauro in digitale del “Le Voyage Dans La Lune” di Melies l’operazione nostalgia funziona perfettamente e perfino commuove. Il film che era stato colorato a mano fotogramma per fotogramma è stato il pioniere del cinema fantastico con delle trovate artistiche insuperate. E’ stata una vera e propria operazione di archeologia perché la pellicola, vecchia più di cent’anni, era ridotta letteralmente in frammenti. Qui Martin con grande classe ci mostra altri capisaldi delle origini dell’ultima musa inventata dagli umani e che ancora non ha trovato un successore (forse internet che come il cinema è un’arte contenitore?). Al di là delle belle immagini in 3D non so però quanto gli amabili Goonies davanti a noi e il resto del pubblico abbiano apprezzato un film così tanto per nerd del cinematografo. Un film museale, detto in senso buono. Anche a me, alla fine, più che altro è tornata la voglia di vedere un film di Richard Donner. Uno che ha sempre fatto volare in alto la fantasia pur restando ben fisso con i piedi per terra.

Nel tragitto tra casa e l’Orfeo ho anche girato nei giorni scorsi alcune immagini buone per il seguito di Fargo.

L’insostenibile pesantezza dell’atomo.

Ci sono dei riti di passaggio che a volte si chiamano traslochi in cui vedi passare tutta la tua vita davanti a te. Un po’ come quando stai per schiattare. Almeno così dicono perché a me non è mai capitato. Di stare per schiattare. Mentre di traslocare mi è già capitato, ma quello di oggi è un traslocone, il più grande negli ultimi 20 anni. La vita ti scorre davanti sotto forma di oggetti, giochi che hanno la tua età, libri, quaderni, milioni di dvd, centinaia di cd, diari di quando andavi al liceo e ti piaceva un casino una che ogni anno ti schivava. 5 anni di liceo. 5 diari monotematici. 5 anni di schivate. Chili da spostare, spolverare, buttare, vecchie consolle da mettere su ebay. Miliardi di atomi che hanno riempito entropicamente ogni spazio.
E mentre un biglietto del tram della città di Lisbona ti passa davanti ti viene il Momento Riflessivo in cui ti chiedi il senso dell’accumulare tutto ciò quando tu durerai molto meno del tuo Goldrake in metallo pressofuso del 1978. Degli istinti nazisti di fare una pira di libri in cortile ti prende quando cerchi di sollevare l’ennesimo scatolone pieno di foreste trasformate in carta. Di cose che non rileggerai mai, ammesso che l’abbia mai lette. Benvenuto iPad, Kindle e altri disintegratori di atomi trasformati in bit. Meno romantici dei bei dischi di vinile col faccione di Guccini, ma molto molto più leggeri. I bit hanno questa caratteristica comune all’anima. La leggerezza. Per non dire l’inconsistenza. Dove per anima intendo ciò che ci distingue dal mero corpo, ma anche da una roccia. Pensieri, sentimenti, volontà… Formiche elettriche che passano su un hardware relativamente piccolo come bit veloci dentro un ipod. Certo l’atomo ha ancora un bel vantaggio per tanti aspetti. Un atomo lo puoi toccare, se sono tanti li puoi abbracciare, se sono buoni li puoi mangiare. Un’idea no. O forse sì se la fai diventare atomica con una ricetta. Gaber abbiamo fatto la rivoluzione. Intanto, inscatolo. E già che ci sono giro un microcorto con questa idea di atomi che diventano bit e idee che diventano atomi.
Sarebbe notevole poter trasferire l’anima come i bit. Se questa davvero non fosse trascendente, ma solo fatta di formiche elettriche la cosa penso si potrebbe fare.
Ma probabilmente si trasferisce già a nostra insaputa e finisce respirata come aria dalle piante, dagli altri esseri viventi, dalla terra.
Credo che difficilmente ci potremo sottrarre al fascino degli atomi perché sono dei luoghi abbastanza sicuri per depositare un po’ della nostra anima.

Nel prossimo post tornerò sulla terra con un tema di estrema desuetudine: Han solo ha sparato per primo, caro il mio George del Lucasso. Un testimone che era al bar di Mos Eisley può confermarlo. Sempre che capiate il sabipode.