Una cavalletta nel cappello.

Immaginate di avere come fidanzata una con il corpo di Brigitte Bardot a 20 Anni, ma con il carattere di Vittorio Feltri (il Feltri del 2019 per la precisione).

Se non riuscite in questa impresa di fantasia potete acquistare un iPad (PRO per la precisione) e ottenere il medesimo risultato: un hardware da favola (in senso positivo) unito a un software da paura (in senso negativo).

Se siete donne potete scambiare Brigitte con un giovane Steve McQueen, ma l’interfaccia è sempre un Feltri ’19).

Questa però non è una recensione dell’iPad Pro. È più un… Va beh.

Un passo indietro.

Nel lontano 2010 (grazie wikipedia) Steve Jobs presentò il primo iPad . Ai tempi sembrava una versione allargata dell’iPhone (enlarge your iPhone), ma senza funzioni telefoniche. Quindi un oggetto buono per leggere riviste o libri (al costo di una retina bruciata) e navigare su internet o poco di più. Un costoso lettore, abbastanza pesante con le stesse giocose applicazioni del telefono. Non mi impressionò più di tanto e mi accontentai di una versione mini di seconda mano. I tablet in generale e quelli di Apple, in particolare, sembravano figli di un pensiero debole, di un’intuizione brillante rimasta nel bozzolo. Una rivoluzione senza leader e forse non sarebbe stato cosi se Jobs non fosse scomparso poco dopo, ma nonostante ciò, mentre i computer cambiavano poco o niente, i tablet, quasi involontariamente, li raggiungevano e per vari aspetti li superavano.

Questo però non vuole essere un compendio di storia informatica, semmai è più una… Poco tempo fa. Dicembre 2018. Esce un nuovo iPad Pro e il capoccione di Apple,

Tim Cook, detto State calmi e prendetevi i Dividendi, afferma che è più potente

del 90% dei portatili in circolazione.

Visto che ho un portatile ormai sul viale del tramonto e visto che sempre Apple ha deciso che il suo rimpiazzo doveva costare come diamante di fidanzamento ho voluto credere al Ragionier Tim e sperare che il mio portatile rientrasse nel 90%.

Con un terzo di diamante di fidanzamento ho preso il Top degli iPad Pro+penna. Tim non aveva tutti i torti. Il corpo della 20enne Brigitte è decisamente scattante, non solo del venerando portatile, ma anche del fisso. Il problema è il Feltri Inside ossia il software, per lo più inadatto al corpo. Ben presto mi accorgo di essere caduto nel cliché che nella letteratura e nel cinema post moderno vede l’umano lottare contro la macchina in una lotta dagli esiti incerti.

E’ la famosa potenza senza il famoso controllo. Il che è di per se un fatto curioso.

Apple ha sempre fatto del software il vero punto di forza e di distacco rispetto agli altri. Il corpo è sempre stato nella media, più attento alla forma (anche troppo) che alla potenza pura.

Il software era invece sinonimo di sicurezza e semplicità. Con l’ipad assistiamo a un ribaltamento di prospettiva. Ho messo alla prova il corpo con video in 4K a 50 frame per secondo e non ha fatto una piega.

Quando però si tratta di trasferire un semplice gruppo di file da un posto all’altro o di compiere operazioni semplici arriva la simpatia feltriana e ti dice di non rompergli i maroni che lui vive a Bergamo e che a Bergamo i file non si spostano, non si scambiano, non si rinominano. A Bergamo ognuno si fa gli affari suoi e si va a letto presto.

Ci sono stati momenti in cui ho sognato di fonderlo in un altoforno guardandolo squagliarsi come un terminator qualunque.

Il risultato di questi poco elastica mentalità ha portato all’anarchia . Per Aggirare Bergamo ogni App ha scelto una sua circonvallazione. Chi vuole passare solo dal cloud, altri solo da alcuni servizi su wifi, chi solo dalle cartelle preconfigurate. Ci ho messo un bel po’ ad abituarmi a questo intrico di vie e viuzze, ma alla fine sono 8 mesi che quasi non tocco il portatile. Riesco a fare praticamente tutto. Alcune cose sono persino più piacevoli: tornare a scrivere a mano, prendere appunti con la penna (questo post è tutto scritto a mano e poi convertito “a lume di naso” dall’applicazione).

Altre cose sono ancora inutilmente frustranti e mi ritrovo a sculacciare la Bardot perché mi ha smarrito delle foto in giro per Bergamo.

Ma questo non è un pezzo che parla di quello che si riesce o non si riesce a fare con uno schermo nero. È più la constatazione di una mancanza di idee su più livelli e che il post ideologico ha vinto su tutti i fronti. Dal mercato alla politica si va per tentativi, per approssimazioni. Anche quando la strada sembra bella chiara e spianata. Anche quando sarebbe facile usare la ragione. Non c’è una visione né di breve né medio termine. Non si guida più il cambiamento, ma al massimo lo si insegue a distanza di sicurezza. L’unica filosofia vincente è quella del ragioniere, si va dove vuole il mercato, dove compra la gente, che non va contraddetta, che ha sempre ragione anche fosse solo una maggioranza relativa.

Non è una questione di bene o di male. Magari è bene che non ci siano più fedi e certezze a scontrarsi. Forse siamo alla realizzazione della democrazia dal basso. Un sondaggio permanente su ogni questione risolverà di volta in volta i problemi. Una Svizzera globale. Il mercato del resto è un sondaggio continuo e sempre Apple ne diede dimostrazione quando molto tempo prima dell’iPad propose il Newton. Era un’idea talmente avanti che fallì perché in pochi riuscirono ad afferrarla. C’è da chiedersi quando un’idea troppo in anticipo diventi un’idea in ritardo. In quanto tempo un’idea progressista diventa conservatrice? Per l’iPad direi una decina d’anni.

Alla fine di quest’anno (2019), Apple, finalmente, concederà ai suoi elettori un file system per l’iPad meno inFeltrito e lascerà al popolo la decisione se il futuro dei Pc sarà un tablet o meno (a me sembra già un presente imperfetto). Il mercato vota tutti i giorni, le idee più sono confuse o sfumate meglio è, cosi uno le consuma tutte, come le scarpe. Un giorno ne provi una e un giorno un’altra. C’è ormai chi va in giro con una scarpa diversa per piede e se avesse un terzo piede avrebbe una scarpa ancora diversa. Il mio treppiede è differente. Il nostro treppiede regge il mondo.

Direi che per oggi è tutto. Ah, perché il titolo “Una cavalleria nel cappello”? Non ne ho idea, ma mi affido ai lettori. Date voi un perché. Siete la gente e il potere vi temono.

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Le mutazioni.

Mi chiedevo da un po’ il senso di tenere aperto questo luogo di scritti derelitti. Anche perché, a meno di non avere altro da fare nella vita o di pagare qualcuno per farlo, non c’è abbastanza tempo per stare dietro a tutti i cosiddetti social. Già ho una pagina su FB, un account di Twitter, ce ne sarebbe uno pure su Flickr da mesi alla deriva come un’astronave perduta nello spazio…

Di fronte all’evoluzione del web il blog sembra un cascame decadente, un po’ come il tè delle 5 con una nuvola di latte. Anche la parola stessa sa di antico. Roba per tempi più tranquilli insomma, ma che richiede anche molto più tempo per ordinare le idee, mentre con FB è un attimo condividere la prima gif ganza animata che ti passa davanti o litigare con qualcuno sull’utero in affitto, in comodato o in usufrutto.

Non che nessuno ti obblighi a starci dietro o che qualcuno si strappi le vesti per l’improvvisa scomparsa di un luogo che è pochissimo frequentato. E’ più un senso di colpa che ti prende. L’idea di aver iniziato qualcosa senza finirla che è un’idea che personalmente mi provoca un senso di irritazione testicolare acuta. Si potrebbe quindi scrivere la parola fine a tutto ciò e sgombrare il tavolo per pensare a nuovi e più esaltanti progetti. La sensazione che i mezzi siano superiori per numero ai messaggi sarebbe un altro buon motivo per tirare giù la saracinesca. Eliminare i duplicati, le ridondanze e i vattelappesca.

Il blog è uno strumento più riflessivo, più intimo, meno esposto all’interazione molesta, con una memoria più lunga, ha il vantaggio di essere più lento e tante altre belle cose. Tutti questi pro sono anche tutti i suoi contro.

L’esigenza che io sento ora è quella di trovare uno spazio di condivisione delle idee filmiche e questo non è il luogo migliore.

E’ quindi forse ora di provare a dividere le cose piuttosto che ripeterle su diversi medium. Così qui lascerei solo spazio al personale, mentre altrove e precisamente sulla pagina FB continuerei con la parte più propriamente filmica che significa scrivere, filmare e montare.

Pertanto per i pochi aficionados dei miei tiramenti questo spazio resterà, anche se forse più sotto forma di museo, mentre per tutto il resto il luogo più adatto sarà questo:
https://www.facebook.com/alexthecatfilmmaker/

Buona condivisione.

IlmegaredattoresideralediAlexvillamirafilmmaker.

Ex malo… Una recensione personale della Crisi.

Musica consigliata: Vivaldi, concerto in La minore Rv500, Largo. Oppure Battisti, Confusione.

Quando sento qualcuno parlare della Crisi “come opportunità” il mio primo ziopaperonico istinto è quello di imbracciare la spingarda caricata a sale e fare fuoco.
La Crisi è una cosa mesta, sfibrante, appiccicosa. Ti si incolla dalla mattina alla sera, ti si abbarbica sulla spalla come un pappagallo al suo pirata.
Poi il tempo passa e l’obiettivo cambia focale. Da un super tele che non ti fa capire in quanta melma sei finito si passa, molto lentamente, a un grandangolo. Le cose si rimpiccioliscono e anche dall’inverno nucleare prima o poi qualcosa germoglia.

Nel biennio 2011-2012 mi sono ritrovato, come molti altri, a camminare in una sorta di deserto economico movimentato solo dal famoso cespuglio secco che rotola sospinto dal vento.
Vorremmo che l’odore dell’esplosione fosse già dimenticato, ma in realtà abbiamo nelle narici ancora l’eco della cenere. Non mi ancora del tutto chiaro come iniziò e perché.
– I mutui subprime! – Urlano dalla piccionaia.
Ah ecco. Ovvio.

Sta di fatto che rapidamente i clienti prima tagliarono i preventivi a volte del 100%. Poi tagliarono la corda.
Ci fu un momento in cui tutto il paese sembrava sull’orlo dell’abisso. La Grecia ai tempi sembrava quasi un posto dove emigrare.

tumbleweed

Tumbleweed


Arrivò ben presto un problema strettamente matematico di pareggiare le uscite con le entrate. E visto che le uscite erano costantemente in segno positivo e le entrate costantemente in segno negativo il bilancio era tutt’altro che bilanciato. Ricordo di aver filmato con una lunga carrellata la fila di bollette, tasse, spese condominiali da pagare da tempo. Volevo aggiungere la sequenza a un film che si sarebbe dovuto chiamare beffardamente “Benvenuto puccettino” dedicato al figlio che aveva scelto un così bel momento per calarsi nel mondo. Non è detto che un giorno non lo faccia. Forse aspetto che la focale sia ancora un po’ più grandangolare.

Era quindi la fine del merdaviglioso 2012 quando una domanda mi si propose in testa grande quasi come un manifesto 6×3: viste le premesse vuoi ancora fare il mestiere che stai facendo?
Quando mi posi, esattamente dieci anni prima, la medesima domanda, anche se in condizioni del tutto diverse, la risposta fu secca e immediata: no. E infatti cambiai rapidamente mestiere.
Sapevo quindi per esperienza diretta che quella era una domanda molto rischiosa perché se già ti viene in mente vuol dire che c’è qualcosa di grosso che non va.
La differenza, non piccola, è che ai tempi il problema veniva da dentro, ora il problema era soprattutto fuori. O forse no. Confusione. Magari mi ero illuso che la strada del filmmaker fosse una figata e invece la realtà, anche quando andava bene, non era per nulla esaltante. Del resto avevo iniziato questo mestiere con lo scopo di girare film e invece hai girato un po’ di corti, scritto qualche lungo, ma niente di più. Diciamo che tra i sogni e la realtà c’è la distanza che c’è tra la Terra e Giove. Che è sempre meglio di quella che c’è tra la Terra e Urano, ma sempre un bel chilometraggio. Era una domanda che andava quindi oltre il pianosequenza sui conti da pagare.
Una dozzina di anni fa per inseguire quell’idea mi adattai a fare lavoretti di ogni tipo. Ora ero di nuovo a quel punto, non necessariamente più saggio. Sicuramente più angosciato.
Perché in effetti la domanda più corretta questa volta era: cosa sei disposto a fare per continuare a fare quello che fai?

Dato che come diceva Guzzanti la risposta che hai dentro è quasi sempre sbagliata, provai a cercarla fuori. Nel senso letterale del termine. Mi dedicai a riprese di pesci all’acquario, a documentari su mascherai, a film biografici che avrei visto solo io. Ecco la famosa opportunità della Crisi. Il tempo per guardarsi allo specchio, il bisogno di riflettere su chi si è e su cosa si sta facendo.
Il fatto è che quando faccio riprese, banalmente, sono felice. Punto. Mi ricordo che un paio di volte mi inquadrai allo specchio e mi immortalai nel più banale degli autoscatti di riflesso. La telecamera mi donava non c’erano cazzi. Avrei sturato le fogne (cosa che ho fatto in passato durante il servizio civile) per tenerla ancora in mano.
La risposta alla domanda era tutta lì.
E poi Giove non è così lontano come sembra.

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Anche i filmmaker sognano.

E quando sognano sognano, banalissimi, di Girare Film. Ma per non essere ultrabanali sognano di farli con gente con cui non li faranno forse mai.
Pierce Brosnam e Benedict Cumberbatch per dire. Il secondo ho dovuto guardarlo su internet che il nome non me lo ricordavo affatto, ma la faccia sì.
In una stanza che era un camerino, ma non sfigato, molto elegante anzi, spiegavo ai due la scena che avremmo dovuto girare di lì a poco.
Benedict provava dei costumi e, come capita quando ci si cambia, tra una prova e l’altra era nudo lasciando cadere la mascella della mia assistente.
Pierce invece stava molto attento a ciò che dicevo, quasi non capisse proprio tutto.

Nella seconda parte siamo su un set molto grande con una cinquantina di comparse di varie nazionalità, ma forse per lo più latinos tipo messicani o giù di lì. Il film, e questa è una notizia anche per me, è in costume e ambientato nel 1700 tra i pirati. Tipo Pirati dei Caraibi o robe di moschettieri. Un genere che trovo quasi insopportabile, ma non si può avere tutto.
Avevo un interprete al mio fianco che traduceva tutto.

– Allora ragazzi oggi facciamo una scena d’azione.

Traduzione. Latinos emettono versi di approvazione.

– Però anche se questo è un film di cappa e spada non vorrei girarlo come il tipico film di cappa e spada. Vorrei qualcosa di più poetico. Tipo alla Malick.

Traduzione. Pausa. I latinos emettono versi di disapprovazione.

– Dopo potete comunque menarvi.

Traduzione. Approvazione generale.

Chissà poi come è andato il film. Devo sognare il seguito.

Fine.

I flipper sognano pecore elettriche?

Da circa 25 anni sono seguito da “Vita nella giugla”, un flipper degli anni ’70 ispirato a tarzan e amici. Quando avevo l’età per andare in sala giochi il flipper era ancora in voga, ma già un oggetto semi schifato da noi ipergiovani attratti come falene dalla luce dei pixel dei primi videogiochi. Il flipper sembrava uno strano arnese per matusa il cui unico scopo era far schizzare una palla d’acciaio lungo percorsi scoscesi o contro gommine respingenti. Ora che matusa lo sono anch’io, posso apprezzare quest’arte in forma ludica. Mi ricordo che un tempo quasi in ogni bar era d’obbligo il flipper. Poi il flipper più videogioco. Poi solo videogioco. Poi videogioco e tv. Poi tv e basta, poi tv più slot machines, ma gioca responsabile eh?Flipper 12
Vista in questa prospettiva il flipper sembra far parte di un’epoca più civilizzata, quando si usavano le spade laser per tagliare in due le persone, come direbbe Obi-Wan Kenobi. Quando Guccini spillava birre in Radiofreccia sullo sfondo c’era proprio un flipper identico al mio. Così dopo anni un cui è stato lasciato a fare altro (rifugio per gatti, appoggio per suppellettili, etc.) e a ingombrare ampie fette di casa facendone più che altro arredamento, ho deciso di rimetterci mano. Tutte le gomme erano cotte dal tempo. La palla incastrata in un cumulo di polvere filtrata negli anni sotto il vetro. Sono riuscito a riaprire il vano monete da anni una specie di forziere inespugnabile per trovare un tesoretto fatto di 100 lire. Ah la lira! Ah la tauromachia! L’ho ripulito, sostituito le gomme, lucidato le gambe aggredite dalla ruggine.
La pancia del flipper è come un circuito elettronico ingrandito migliaia di volte. Sistemi “binari”, elementari transistor, cancelletti, ponti, sistemi interamente elettromeccanici per reagire agli input della palla o alle nostre azioni. Reazioni molto rumorose, come fosse un’auto d’epoca.
Il sistema che manda il flipper in tilt non è altro che un’asticella con un peso a piombo in fondo. L’asFlipper 7ta ha un anello intorno. Se l’asta tocca l’anello significa che abbiamo scosso in maniera esagerata il flipper e il flipper ha uno svenimento come un uomo colpito in testa da una legnata.
E’ lì che mi è venuta l’idea dell’androide. Un androide primitivo, ma con un fine lavoro di artigianato alle spalle. Quei meccanismi antichi come gli animatronic che dal 1700 cercavano di riprodurre alcune funzioni o fattezze umane.
Ho pensato che in fondo un oggetto così complesso potesse sviluppare un qualche tipo di sentimento. Come il desiderio di giocare ancora, di essere utilizzato per quello che era. Così l’ho digitalizzato raccontando il sogno di un flipper e siamo tornati a giocare ancora una volta insieme.

Avrei detto questo.

Appunti per un intervento pubblico scritti in privato.

La vita ti regala anche delle cose buffe. Tipo essere invitato da una persona che non vedevi da 17 anni come relatore, in qualità di regista, sul tema “Arte: malattia o cura?”.
Ora dato che purtroppo non potrò essere presente in formato 3D, trasmetto questi appunti in 2D a chi abbia la pazienza di leggerli.

Ringrazio quindi Fabrizio Gilardi per aver pensato a me e per avermi definito un regista anche se mi riconosco più nella definizione anglosassone di “filmmaker”. E’ un termine che abbraccia più ruoli e quindi rappresenta meglio il mio modo di lavorare che mi vede spesso sia sceneggiatore, operatore e montatore dei miei film. Regista secondo me è più specifico e riguarda solo un momento, forse il più importante, della produzione.

Bisognerebbe poi capire se ciò che faccio possa essere accostato all’arte. Farò finta che lo sia lasciando la soluzione del quesito amletico al pubblico che avrà la pazienza di vedere qualcosa di quello che ho realizzato (www.fairy-tails.org o http://www.alextheca.it ).

Per tornare al tema se l’arte sia cura o malattia vorrei azzardare subito la mia risposta dicendo, salomonicamente, che può essere entrambe le cose. Provo a dimostrare.

Parto dall’idea che l’arte sia una rielaborazione della realtà, una trasformazione artificiale della materia che ci circonda. Dal mio punto di vista questa rielaborazione ha uno scopo di ricerca, esplorazione e intrattenimento. Ma anche quando sono spettatore mi muovono le stesse esigenze, gli stessi bisogni. Quando questi bisogni vengono soddisfatti è normale sentirsi “curati”, appagati, e visto che siamo nell’anno dell’alimentazione, sazi.
Mi pare fosse Woody Allen che in un suo film paragonava Dostoevskij a un pasto completo. Ecco forse bisognerebbe valutare un’opera dal grado di appetito che ti toglie.

Sempre a proposito di arte Allen sostiene che l’arte è uno dei pochi eventi della vita su cui si ha un certo grado di libero arbitrio. Dice: “solo l’arte puoi controllare, l’arte e la masturbazione”. Se non è una cura questa…

Sarebbe poi da capire per quali malattie l’arte possa essere una cura. Ognuno ha le sue idiosincrasie e si sceglie la cura più adatta. Io direi che è più adatta a curare le malattie dell’anima. Vedo difficile guarire dall’influenza con alte dosi di impressionismo. A meno che l’influenza non dipenda dallo stato d’animo e credo che spesso sia così.
C’è però una malattia che accomuna tutta l’umanità. E’ una malattia la cui prognosi è sempre certa e, fino a prova contraria, irreversibile. E’ una malattia incurabile chiamata vita. Per questa malattia l’arte non è una cura, visto che cura non c’è, ma al più un palliativo, un piacevole oppiaceo.

E veniamo al punto in cui l’arte invece può essere considerata malattia. Anche qui la vedo come una malattia dell’anima. C’è il solito luogo comune secondo cui per essere artisti bisogna essere pazzi, stravaganti o eccedere in qualche vizio. Non so. Io credo di più nel dna, inteso come talento regalato dalla natura, misto a mestiere. Se guardo al campo cinematografico nei registi che ammiro vedo soprattutto talento e tanto esercizio. A volte le due cose, col tempo, vanno in direzioni opposte. Il talento, inteso come le cose che uno ha da dire, tende ad esaurirsi, mentre il mestiere tende ad accrescersi. Così mi capita spesso di vedere in una carriera di un regista un inizio travolgente, ma con poca tecnica e un finale poco entusiasmante, ma con una tecnica sopraffina. E’ un po’ come con i grandi calciatori. Con gli anni perdono di fisicità, ma compensano con l’esperienza. Detto questo un po’ di “malattia” aiuta se per malattia si intende un’inquietudine di fondo, un modo originale e anticonformista di guardare il mondo. La malattia allora è sinonimo di diversità, provocazione, opposizione, invenzione.
C’è infine una condizione, forse accomunabile a una malattia, che a mio parere aiuta a produrre e a usufruire dell’arte. E’ l’ingenuità. Sgombrare il cervello da tutti i nostri pregiudizi, abitudini e costruzioni. Avvicinarsi alle cose come farebbe un bambino di tre anni che esplora il mondo come vivesse in un sottomarino giallo. E’ una malattia da cui, purtroppo, si guarisce troppo in fretta.

Grazie.
Alex
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36: quando il tempo si misura in mesi.

Ho da poco terminato di montare i titoli di coda di un’opera che mi ha impegnato per tre anni anche se è stata fatta nei famosi Ritagli di Tempo. Un’opera per di più che verrà vista, forse, da un ristrettissimo gruppo di persone e quindi difficile da definire un’opera.
Potevo intitolare questo post anche “36: la nemesi di tutte le diapositive” perché l’opera in questione è il film dei primi 36 mesi di Leo condensati, per così dire, in un’ora e trentacinque minuti. Si potrebbe quasi dire che ho visto mio figlio crescere attraverso l’oculare di una macchina da presa.
Come le celebri diapositive, spauracchio di ogni ritorno dalle vacanze, anche questo film è un qualcosa che interessa solamente le persone che ci sono finite in mezzo e forse manco quelle. A differenza però della serata diapositiva, qui la sofferenza è su richiesta, on demand come dicono le tv a pagamento. Solo chi vorrà il link potrà autoflagellarsi.

In verità questo film è un po’ un piano alternativo all’idea che avevo avuto ai tempi della Notizia. Il progetto che avevo in mente era più ambizioso e mirava a illustrare all’erede in che contesto socioeconomico fosse nato e con quali persone intorno. Era il 2011 e il film si doveva chiamare “Benvenuto Puccettino”. Ben presto mi sono accorto che la questione era molto complessa e che raccontare il proprio tempo senza una distanza di sicurezza avrebbe distorto un po’ le cose. Così di quell’idea è rimasto solo un trailer e non so se mai avrò la forza di concluderlo.

36 parte proprio dall’ultimo fotogramma del trailer di “Benvenuto Puccettino” e prosegue per appunto 36 mesi. Del contesto storico e sociale non è rimasto praticamente nulla se non qualche sporadica notizia dalla tv e tutto ruota intorno all’Essere Leo. Un po’ being Leo Malkovich e molto The Truman Leo Show.
Dalla prospettiva di chi l’ha realizzato c’è, a tre anni dall’inizio, una gamma di emozioni varie e anche un po’ strane. In primis, essendo autore non solo del filmato, ma anche del protagonista dello stesso, scopro quante cose la mia memoria ha rimosso di quei frenetici mesi passati a capire il funzionamento di questo nuovo organismo.
Sono mesi in cui ci si concentra su molte cose e su nulla in particolare e la trasformazione è talmente rapida da non rendersi conto del passato recente, nemmeno nelle forme. Ci si focalizza soprattutto sul presente e tutto il resto evapora in un ricordo sfuocato. E’ qui che si vede tutto il limite della fotografia rispetto alle immagini e ai suoni in movimento.

Potrei anzi affermare che di questo filmato il protagonista vero è il Tempo e il suo effetto su un corpo umano. Effetto che nei primi 36 mesi è di una forza dirompente trasformando una specie di ameba che mangia, dorme e fa la cacca in una persona che articola pensieri, parole, balla e canta. Oltre ovviamente a continuare a mangiare, dormire e, spesso, fare la cacca.

Un effetto collaterale di tutto ciò è che mi è praticamente preclusa ogni ulteriore figliolanza. Come potrei spiegare a un secondo genito perché non ho realizzato un film sui suoi primi 3 anni? Dirgli che semplicemente non ne avevo più voglia non farebbe che aggravare la Famosa Tara presente di fabbrica in tutti i fratelli minori. Meglio di no.
Per info: alex@fairy-tails.org
36 Locandina

Il Bianco e il Nero.

Se vedessimo la vita in bianco e nero invece che a colori ci perderemmo in varietà, ma ci guadagneremmo in semplicità. L’universo sarebbe un elegante sfumatura di grigio dalle estremità opposte: bianco puro e nero infinito.
Anche i nostri stati d’animo probabilmente avrebbero meno frequenze di cui tener conto. E ci libereremmo finalmente del blues, delle rosee visioni, del verde matematico nei portafogli.
Forse per questo i cani, che dicono avere una tale semplice visione (ma io non ci credo), passano dallo scodinzolio alla mestizia senza troppe complicazioni intermedie.

SleepePark-Color

SleepePark